domenica 20 maggio 2007

Storia della tecnologia e degli strumenti per fare la carta

La prima "forma" da carta escogitata e utilizzata da Ts'ai Lun e dai suoi aiutanti, consisteva unicamente in un grossolano rettangolo di stoffa, teso su un telaietto di bambù, che veniva introdotto nell'impasto di fibre affinché queste ultime si depositassero sulla stoffa formando così il foglio di carta. Con un simile utensile era necessano che il foglio umido si asciugasse direttamente sulla "forma", e, per ottenere una grande quantità di fogli, occorreva un gran numero di forme, poiché l'essiccazione al sole richiedeva un certo tempo.
Successivamente un artigiano ingegnoso fabbricò una forma da cui si potesse togliere il foglio di carta ancora umido: fu, questo, un passo importantissimo nel perfezionamento delle tecniche di fabbricazione della carta, giacché fu possibile produrre più fogli con la medesima forma.
Il fondo liscio e teso della forma, affinché il foglio bagnato si potesse staccare facilmente, era formato da sottili strisce di bambù legate insieme da fili di seta, di canapa, di peli di cammelli, di jak o di cavallo, i quali andarono a sostituire le iniziali reti da pesca poste a base del telaio.
Più tardi, si passò ad un telaio munito di un tessuto attraverso il quale l'acqua dell'impasto filtrava, consentendo la formazione di un foglio che non lasciava nessuna impronta, o come si dice in termine tecnico, alcuna "vergatura". Nacquero in tal modo le prime carte "veline" che, contrariamente all'intendimento odierno, erano così denominate perché, poste in controluce, non presentavano alcuna traccia di linee.
Si disponeva di più vasche o mastelli per il macero e per la pasta, si usavano filtri diversi a seconda delle materie prime usate, ma tutto era lasciato al lavoro dell'uomo che, con grandi clave di legno, riduceva in polpa il materiale fibroso.
La lavorazione (o, almeno, la parte finale della lavorazione) avveniva all'aperto: i fogli erano esposti al sole ma, affinché la carta si disidratasse, anche nelle stagioni fredde, i muri o i pannelli sui quali i fogli venivano applicati erano riscaldati preventivamente.
Con il passare del tempo, poi, si migliorarono gli impasti con l'aggiunta di collanti, come amido di farina di frumento, colle estratte dal gelso, dai licheni e dai cereali, che erano in grado di evitare che l'inchiostro fosse assorbito interamente spandendosi sul foglio: un decreto rese obbligatorio l'uso di una sostanza tratta dal "phellodendron amurense", che colorava la carta proteggendola dagli insetti.
Le varietà di carta erano molte e via via perfezionate: dalla provincia di Hunan, ricca di acque e culture erbacee, dove Ts'ai Lun iniziò la lavorazione, la fabbricazione e l'uso della carta si andò estendendo gradualmente a tutto l'impero e, nel V sec. d.C., in tutta la Cina.
Gli abitanti dello stato di Ch'u fabbricavano la carta con la canapa, a Mien questa si fabbricava con steli teneri di bambù, nelle province settentrionali con la scorza del gelso, nelle province marittime con muschi e licheni, nello stato di Qu coi bozzoli del baco da seta, nel Chechiang con paglia di riso, che, una volta macerata, dava vita ad una carta molto "lucente.

L'Imperatore Kao-ti, della dinastia Tsi (479-502) fece fare, ma non si sa con quale procedimento, una "carta d'argento", definita così per la sua brillantezza, e ne offrì ai suoi vassalli e ai sacerdoti buddisti, che gli resero in cambio libri scritti su carta rossa e 30.000 fogli di carta di cinque colori diversi lunghi da 3 a 5 chang, ossia veri e propri rotoli di 9/15 metri, anche se ancora non possiamo parlare di bobine.
Gli arabi perfezionarono i procedimenti cinesi non solo per quel che riguarda la composizione del materiale, ma soprattutto per i processi di fabbricazione.
Sostituirono il traliccio di bambù del telaio con un reticolo di fili d'ottone e una nuova forma fornita di una "cornice" o "coperta" che l'operaio toglieva subito dopo che il foglio era formato.

I tipi di carte fabbricati erano numerosissimi: gli arabi arrivarono a fabbricare una carta vergata, ma molto leggera, utilizzata per le comunicazioni a mezzo di piccioni viaggiatori.
Va, soprattutto, rammentato che gli arabi riuscirono a perfezionare le tecniche di fabbricazione della carta grazie alla loro conoscenza delle tecniche idrauliche.
Maestri d'irrigazione nel IX e X secolo utilizzarono la forza motrice dell'acqua per il funzionamento dei mulini da carta che, fino a quel momento, erano stati "a mano" sfruttando la forza dei cammelli o degli asini. La ruota dentata, infatti, permise loro di trasformare il moto circolare continuo in moto alternato, grazie anche all'uso di una molla o al martello stesso che doveva compiere il lavoro di triturazione dell'impasto.
Il mulino da carta che alimenterà per secoli l'industria cartaria fu frutto della civiltà araba.
E' significativo come, sin dalle origini, arabi e mori, considerarono la carta una produzione di interesse pubblico, che non poteva, quindi, essere lasciata in mano ai privati. La fabbricazione era monopolio statale e veniva esercitata, in apposite manifatture, dette "Khaghidkhànch", procedendo prima alla cernita dei cenci, poi
alla loro fermentazione in apposite vasche, alla successiva bollitura in appositi tini, alla purificazione mediante lavaggio e, quindi, alle operazioni di filtraggio e raffinazione.
Si rinunciò alla colla di origine animale, vegetale e alle gelatine per usare l'amido, che sarà ripreso anche in Italia.
L'Italia ebbe la sua prima cartiera nel 1276, a Fabriano, centovent'anni dopo che era stata impiantata quella di Xativa in Spagna.
Si possono formulare diverse ipotesi, circa l'introduzione in Italia della produzione cartaria, ma le due più attendibili ci fanno supporre che le tecniche di fabbricazione riuscirono a penetrare grazie a prigionieri arabi o italiani sbarcati ad Ancona reduci dalla prigionia araba o grazie ad un cittadino di Fabriano o ad un mercante del porto anconitano che avevano appreso la nuova arte visitando le cartiere della costa catalana.
I cartai appaiono, però, in documenti fabrianesi solo nel 1283, senonché l'arte di fabbricar carta appare in Fabriano ben prima della fine del sec. XIII.

L'industria cartaria in Italia, nacque inizialmente come un fenomeno d'élite, in quanto essa fu intrapresa esclusivamente dal ceto nobile o da persone particolarmente sensibili al progresso della cultura che videro molto chiaramente quello che poteva essere l'avvenire della carta, coi suoi innumerevoli impieghi.
Quasi tutti gli ordini religiosi, e non soltanto i benedettini e i gesuiti, furono spesso all'avanguardia, per tutto ciò che riguarda la carta: sensibilizzarono i nobili a stanziare i capitali necessari, promossero l'installazione di cartiere e, qualche volta, crearono e gestirono direttamente le manifatture.
Successivamente la nobiltà si ritirò da questo tipo di commercio, lasciando l'impresa a quei ceti che si venivano pian piano costituendo e che formarono una borghesia ricca e intraprendente.
Ricordiamo a questo proposito, anche se si tratta di un caso francese, la famiglia Le Bé che, iniziando con un solo molino nelle vicinanze di Troyes, estese incredibilmente i suoi affari tanto che i suoi discendenti diventarono nel '500 ricchissimi e nel '600 nobili.
Sorsero inoltre, parallelamente all'evoluzione della fabbricazione della carta, innumerevoli mestieri che dipendevano dall'industria della carta: i cartolai incollatori di fogli, i fabbricanti di cartone e di carte da gioco, i merciai, droghieri e cerai che vendevano carta.
La manifattura della carta in Italia fu importante non solo per il volume, ma soprattutto per le innovazioni tecniche che furono apportate: gli italiani ebbero all'inizio un ruolo fondamentale nella "Storia della carta" appunto per le loro innumerevoli conoscenze tecniche.
I cartai italiani adottarono i "magli" e i "pestelli" provvisti di chiodi che permettevano di affinare la pasta o di rendere la carta più sottile, e, dunque, più economica in luogo dei mezzi più grossolani dei quali si valevano gli arabi.
Gli italiani resero la carta più accettabile con gelatina animale, ottenuta dalla ebollizione dei cascami delle pelli ovine e caprine, sostituendo così l'amido vegetale, usato dagli arabi come collante, ma che aveva il difetto di provocare la formazione di muffe distruggitrici.
I cartai italiani costruirono, poi, i piani delle "forme", anziché con lamelle o grossi fili metallici, con fili più sottili che, più tardi, diedero luogo alla nascita della filigrana; realizzarono anche una razionale distribuzione del lavoro, un utilizzo economico della manodopera e la meccanizzazione della produzione per una più alta produttività alla quale contribuiva anche un personale femminile per quei lavori accessori, come la cernita e il prosciugamento dei fogli, in cui la donna appariva più adatta.
Ai cartai italiani si deve, inoltre, l'invenzione della filigrana, "un marchio" di fabbrica per contrassegnare la propria carta; probabilmente la scoperta è dovuta al caso, ma questa marca fu il mezzo più importante per indicare la cartiera d'origine, il formato e la qualità del prodotto.
Questa filigrana, cosiddetta "a filo", usata sino al secolo scorso, consisteva nel sagomare un sottile filo di rame secondo un disegno desiderato e nel fissarlo sulla "superficie" della "forma" utilizzata per la fabbricazione del foglio.
E evidente, quindi, che sulla parte in rilievo costituita dal filo di rame si veniva a depositare un minore quantitativo di pasta rispetto a quello che si depositava nelle zone in cui il filo non era presente; è proprio questo numero differente di fibre che permetteva di vedere sul foglio asciutto posto in controluce il disegno desiderato. Il cartaio italiano, inoltre, utilizzò il filo di rame sagomato sulla "forma" in un certo modo, per la produzione di "buste" da lettera.
Da Fabriano, che fu incontestabilmente, la capitale italiana della carta, la produzione si diffuse a Bologna, Padova, Genova, Amalfi, Firenze, Voltri, Sampierdarena, Salò, Treviso, Pioraco, Foligno fino a spingersi più tardi a Roma, Subiaco, a Tivoli, e verso la Campania.
Per duecento anni almeno, l'Italia dominò il mercato della carta, sostituendosi nell'approvvigionamento di questa materia prima sia alla Spagna che a Damasco. Le cartiere italiane erano gestite da imprenditori dinamici, che intraprendevano la loro attività con un vero spirito industriale; ed è per questo che esse prosperarono e mantennero una supremazia incontestabile sul mercato europeo - nonostante il preoccupante esodo delle maestranze.
Con ordinanze del 1436, 1470 e dall'inizio del XVI sec. si tentò di arrestare l'emigrazione dei mastri cartai che da Fabriano partivano sempre più numerosi, imitati da quelli delle altre città; tuttavia l'industria cartaria di Fabriano non ne subì danno: nel 1563 vi si contavano ben 38 cartiere.
Il successo di questa produzione fu per la maggior parte determinato dalle migliori qualità e dalla economicità della organizzazione aziendale. Ma se la carta italiana riuscì a dominare incontrastata il mercato europeo, ciò fu dovuto ai commercianti genovesi, lombardi, piemontesi, toscani e veneziani che portarono la carta italiana ovunque per mare e per terra: la carta di Fabriano veniva spedita soprattutto per via di mare e quella del Piemonte raggiungeva la Francia attraverso le Alpi.
I galeoni genovesi e veneziani veleggiando dal mar Mediterraneo al Mar del Nord rifornivano di carta italiana i Paesi Bassi e l'Inghilterra.
Per quanto riguarda la Jugoslavia e i paesi balcanici, alcuni manoscritti provenienti dalle biblioteche jugoslave ci attestano che in quelle aree era molto diffusa la carta italiana a causa delle strettissime relazioni culturali e commerciali intercorrenti tra la costa italiana e quella jugoslava.
Dal XVI al XVIII sec. la carta veneziana si adoperò nell'impero ottomanno e sin dal XIV sec. antichissimi documenti russi ci forniscono un abbondante materiale riguardo al lungo itinerario che la carta genovese e veneziana doveva percorrere per rifornire la Russia: essa giungeva colà attraverso il porto di Caffa in Crimea, un centro sul Mar Nero governato da un console genovese.
Man mano che il cartaio raffinava la sua esperienza si apprese che la carta, oltre che con impasti di urtiche, fieno, paglia ed altri vegetali, poteva essere fabbricata usando anche gli stracci di lino, di canapa o i cordami.
La materia prima di tutta l'industria cartaria europea fu, quindi, costituita dai residui di stoffe e da cordami, che assunsero notevole importanza portando nella maggior parte dei casi ad una "privativa statale": i cenciaioli raccoglievano nelle città i cenci che successivamente veniva depositati in un pubblico magazzino dal quale i cartai si rifornivano obbligatoriamente.
Iniziò così da parte degli stati una lunga e faticosa attività, diretta a disciplinare la raccolta, lo stoccaggio e l'uso degli stracci: ricordiamo a questo proposito il chirografo di Pio VI, del 10 dicembre 1791, il quale stabiliva che, soltanto, dopo aver soddisfatto la domanda interna, si sarebbe potuto procedere all'esportazione e auspicava vendere il prodotto finito perché più conveniente economicamente.
Ma generalmente si trasgrediva a questo genere di norma poiché gli uffici doganali permettevano la libera uscita ed entrata di merci che sarebbero dovute essere soggette a controlli severissimi; gli stessi operai, quando la cartiera era carente di materia prima, per assicurarsi qualche margine di guadagno in più, incrementavano quello che si può chiamare "il mercato nero degli stracci".
Nell'Italia settentrionale le cartiere si chiamavano "folli" poiché la carta, prima della costituzione di vere e proprie cartiere, era fabbricata nei folli dei lanaioli la cui attrezzatura era adatta per sfibrare gli stracci.
Per questo motivo gli impianti furono denominati "folli da carta" e i cartai "follatori da carta" così da distinguerli dai lanaioli.
In altre regioni d'Italia, invece, i "folli" erano chiamati "qualcherie" e con questo nome furono designati, quindi, tutti gli impianti che utilizzavano panni di lana per la fabbricazione della carta.
La raccolta avveniva secondo momenti ben precisi.
Il cenciaiolo puliva sommariamente gli stracci ed effettuava la consegna alla rinfusa. Spettava, poi, ai magazzini pubblici e privati selezionare gli stracci per qualità e colore e sottoporli ad un lavaggio preventivo con lisciva, che poteva essere sostituito, secondo alcuni cartai, senza alterazione del risultato, ad una fermentazione senza lisciva.
Prima di essere immessi nel ciclo di fabbricazione della carta, questi residui di stoffa dovevano essere ben asciutti: i mucchi, nella bella stagione, venivano conservati esposti al sole; il loro prezzo si abbassava, se presentavano anche soltanto qualche traccia di umidità.
Nella cartiera, poi, dopo che nella fase di raccolta si era operata una certa scelta, gli stracci, già suddivisi per qualità e colore, venivano ripartiti in tre gruppi: "fini", "mediani" e "terzi" in relazione al tipo di carta che il cartaio voleva produrre. A questo lavoro erano addette le donne, che lavoravano in coppia ed erano munite di un coltello lungo 18-20 cm. bene affilato e di un "grembiule" rigido, foderato di cartone che, appoggiato sulle ginocchia, formava una specie di "ripiano".
Con gli stracci "fini" si faceva la carta da scrivere; con quelli "mediani", che contenevano anche altre fibre animali e vegetali come la lana, la canapa e il cotone, si fabbricava la carta ordinaria e, con gli stracci "infimi", la carta per imballaggi. Lo scarto derivante da questa selezione veniva ugualmente utilizzato per fare carta grossolana e grigia per avvolgere le risme di carta bianca e i generi alimentari.
Tale scelta avveniva in uno stanzone sovrastante le vasche di fermentazione e gli stracci così selezionati, attraverso un foro venivano fatti precipitare nelle vasche che riuscivano a contenere due o tremila stracci sino ad un massimo di trentamila per formare un impasto diretto a fabbricare da 250 a 2.000 risme di grandezza media.
La vasca veniva chiamata "tina" o "tino" ed era munita di un notevole numero di buchi sul fondo e graticci ai lati: gli stracci venivano lavati abbondantemente con
acqua corrente e rimossi svariate volte in modo che tutti fossero sottoposti a questa accurata operazione di pulitura.
Successivamente, nello stesso tino o in tini differenti, come avveniva in Francia, gli stracci venivano pressati, coperti con una tela di sacco e lasciati a fermentare. A volte il cartaio aggiungeva calce per ammorbidire l'impasto, ma in una certa proporzione, affinché questo non corrodesse le fibre.
"La fermentazione - scrive nella sua opera L'art de faire le papier il Barone Joseph Gèrome La Lande - rende la pasta unita, ben compatta, morbida e resistente, ma se viene fermata troppo presto, rende la carta cruda, rigida fragile e dura ed esige un maggior tempo di lavorazione"; egli aggiunge che, se la fermentazione è troppo lunga, occorre maggiore materiale per produrre il medesimo quantitativo di carta perché le fibre si bruciano e si riducono in cenere.
L'operazione successiva consisteva nella "triturazione dell'impasto" ad opera di molini ad acqua nelle zone ricche di acqua e di molini a vento nelle zone prive di acqua.
Essi azionavano le cosiddette "pile a maglio", composte da grosse vasche di pietra e successivamente di rame destinate a contenere la sospensione di fibre e da "pestelli" di legno con base di rame che, azionati dalla forza idraulica o dal vento, sottoponevano l'impasto ad una continua azione di battitura, ottenendo così la completa triturazione dei cenci.

L'impasto che si otteneva dalla lavorazione delle "pile a maglio", passava poi immediatamente attraverso una tubatura in vasche di marmo, di pietra o di mattone, dove vi sostava per breve tempo, onde evitare la putrefazione.
Dalla "cassa di conserva" il levatore prelevava la sospensione e la trasportava mediante dei mastelli posti su una carriola alla "tina" del lavorente che, però, in molte cartiere era situata, per motivi di praticità, vicino alla "cassa di conserva". Il levatore detto anche "studente", immergeva un grande mestolo di rame nell'impasto per poi rovesciarlo nella "tina" del lavorente.
Altri compiti del levatore erano di aggiungere acqua all'impasto nella misura necessaria e di muovere periodicamente con un bastone l'impasto onde evitare il deposito.
Successivamente un fornello, posto sotto la tina per mantenere l'impasto tiepido, superava la necessità di girarlo continuamente, eliminando contemporaneamente l'inconveniente della coagulazione delle fibre.
Il lavorente conosceva l'arte "di formare un foglio perfetto di eguale spessore, uniforme, compatto servendosi, oltre che dell'esperienza, anche della forma".
Egli lavorava sistemato su un gradino innanzi alla tina, in modo che, da questa posizione, poteva con facilità immergere "la forma" nell'impasto.
Quest'ultima era composta da due parti: la forma vera e propria, costituita da un setaccio metallico, e il telaio mobile o "cascio", che andava ad applicarsi esattamente sulla forma e serviva per dare la dimensione al foglio.
Il lavorente era il re del tino, era geloso del suo prodotto e non tollerava le osservazioni del "ponitore", anche se giuste; qualche volta lavorente e ponitore si arrabbiavano, discutevano e si minacciavano a freddo
Il lavorente immergeva la forma nel tino per raccogliere la pasta sufficiente e la
sollevava con un movimento rapidissimo, piegandola verso la parte opposta e imprimendole un movimento da destra a sinistra, e uno in avanti e indietro, per distribuire uniformemente le fibre sul setaccio, formato in genere da una griglia d'ottone, e per far "feltrare" (intrecciare) le fibre assieme affinché costituissero legami forti tali da dare al foglio la robustezza necessaria.
L'acqua, invece, ricadeva nella tina attraverso gli interstizi della rete metallica. Un buon operaio doveva essere in grado di formare il foglio con non più di 8-10 movimenti rapidi e nello spazio di 5 secondi: teoricamente doveva produrre 6-7 fogli al minuto, più di 4.000 fogli di medio formato in 10 ore lavorative.
Formato il foglio, il lavorente, togliendo la cornice, poggiava la forma su un piano inclinato e la passava ad un altro operaio, chiamato ponitore, addetto all'asciugatura.
Mentre il lavorente si affrettava a porre il "cascio" su un'altra forma, offertagli da un altro inserviente per la preparazione del nuovo foglio, il ponitore rovesciava la "forma" su un feltro.
Gli arabi, gli spagnoli, i francesi e gli svizzeri depositavano la forma sul feltro in un solo colpo, ma poiché questa operazione comportava spesso delle lacerazioni al foglio, gli italiani adottarono un diverso modo di ponitura, che consisteva nel deporre la forma sul feltro, gradualmente.
Il foglio, così trasferito sul feltro, veniva coperto da un nuovo feltro.
Il ponitore componeva quindi la "posta" cioè una pila formata da feltri e carta sgocciolante.
Il feltro di lana bianchissima, ma che con l'uso assumeva un colore grigiastro, doveva essere di un sol pezzo, tessuto con fibra lunga, non doveva perdere peli che potevano incorporarsi nel foglio: la sua trama non doveva esercitare nessuna pressione sul foglio.
Almeno una volta alla settimana la posta dei feltri, per essere lavata, veniva immersa in una grande secchia di legno con sapone e acqua calda; quindi, veniva pigiata con i piedi, onde far uscire la "ingramatura del pisto", cioè l'impasto che si era attaccato al feltro. Successivamente questo lavoro fu sostituito da una grande botte, la quale, girando sul suo asse rialzava i feltri e li faceva cadere nell'acqua riscaldata a vapore con sapone disciolto.
Un feltro ben conservato poteva durare dai 18 ai 24 mesi, ma doveva essere gettato via non appena si fosse deformato o non appena fosse apparsa l'orditura.
Quando la posta era stata completata, questa veniva messa sotto un torchio, che esercitava una forte pressione affinché l'acqua ancora contenuta nei fogli fosse spremuta e nello stesso tempo fosse assorbita dai feltri.
Successivamente la posta così spremuta veniva portata dinnanzi al levatore, il quale distaccava ad uno ad uno i fogli dai feltri con l'assistenza di un aiutante, incaricato di riunire i feltri da restituire al ponitore.
I fogli via via distaccati che, nonostante fossero ancora freschi, avevano raggiunto una certa rigidità, venivano sovrapposti gli uni sugli altri fino a formare una "posta bianca" formata soltanto dai fogli di carta che veniva sottoposta ancora una volta all'azione di una nuova pressa avente la funzione precisa di spianare e lisciare la carta.
L'operazione successiva che seguiva la pressatura della posta bianca era la "collatura", che anche presso gli arabi e i cinesi aveva la funzione di impedire che, sulla carta destinata alla scrittura, l'inchiostro si spandesse e passasse attraverso il foglio.
La colla migliore che si poteva usare era quella di pesce. In considerazione del suo alto costo, questa fu sempre sostituita da colla di origine vegetale, fino a quando gli
italiani introdussero le colle di origine animale, ottenute dalla cottura dei cascami delle pelli bovine e capire. La colla di qualità migliore si chiamava "garavella". Una volta fabbricata, la colla veniva filtrata e corretta con un pò di indaco, per evitare che la carta uscita bianca dalla pressa divenisse gialla per l'effetto della gelatina. La colla veniva anche opportunamente allungata poiché aveva il compito di impermeabilizzare la carta e non di collarla.
Trasferita la colla in una tina di modeste proporzioni sotto la quale un fornello manteneva un calore costante, un operaio immergeva nel recipiente foglio per foglio.
Dopo che la carta era stata collocata, l'operaio passava su di essa rulli di legno per pressarla e per levarle il superfluo della colla. Riformava poi la posta, che veniva ulteriormente pressata prima di passare all'asciugatura definitiva. Per impedire che i fogli, nella nuova posta e sotto la nuova pressatura, si attaccassero tra loro, e per fare aderire meglio la colla a ciascun foglio, si aggiungevano 6 libbre di allume di Allumiere, vicino Civitavecchia, in 125 libbre di colla: spesso l'allume era sostituito dalla galla, escrescenza della quercia e del leccio provocata dalla formazione di nidi di determinati insetti. Poiché la galla contiene tannino, essa agiva come coagulante.
La collatura doveva avvenire in giorni secchi, poiché l'umidità, cadendo sul foglio, scioglieva la colla: ma non troppo secchi, per evitare che, asciugandosi istantaneamente, la gelatina non avesse il tempo di penetrare tra fibra e fibra della carta.
Nelle giornate fredde le colle usate ingiallivano e si coagulavano facilmente, non riuscendo ad aderire al foglio.
La collatura dei fogli molto ampi presentava notevoli difficoltà in quanto, appesantiti perché bagnati, si laceravano facilmente. In genere essi venivano immersi nella caldaia piegati a metà su un bastone ed erano lasciati asciugare in piano, per evitare che rimanesse un qualsiasi segno sul foglio.
Dopo la collatura il foglio veniva messo ad asciugare su uno stenditoio munito di pilastri che sostenevano una travatura adatta a portare delle corde. Un'operaia, quindi, per mezzo di un arnese chiamato "aspitto" (una gruccia di legno a forma di T), metteva il foglio a cavallo delle corde per farlo seccare. Infine, quando le poste di carta da stendere appoggiate su uno scanno erano esaurite, l'operaia iniziava l'operazione di raccolta della carta asciugata.
Successivamente interveniva la calandratura. I sistemi usati erano due, il più antico, "all'agata", consisteva in una operazione riservata alle donne, le quali, dopo aver posto il foglio su un piano di marmo, servendosi di una pietra di agata contenuta in una impugnatura di legno strofinavano le due facciate sino a renderle lucide.
Con l'altro sistema si faceva ricorso, invece, ad un martello di ferro a fondo pieno, che batteva sul marmo del pavimento, sotto il quale un operaio poneva il foglio prima su una faccia e poi sull'altra: il martello sfruttava energia idraulica, Agli inizi del 1700, invece, il foglio veniva inserito tra i due cilindri di una satina, che lo lucidavano perfettamente.
Alla fine della calandratura i fogli, ancora una volta controllati, venivano allestiti in quinterni, risme e balle.

Per ciò che riguarda Amalfi, le prime notizie di carta amalfitana risalgono al XII sec., ma si ritiene ormai quasi sicuramente che molte "gualcherie" siano sorte già nel 1100 quando la città aveva raggiunto il suo massimo splendore.
Svariati erano i tipi di carta in uso in questa località: dalla carta fabbricata con cenci, reti e cordami, alla carta "bambagina" di qualità migliore perché fatta con fili di cotone, dalla "gennovesca" alla "bianchetta grande o piccola".
A causa della favorevole posizione geografica di Amalfi, l'industria cartaria vi fiorì in maniera straordinaria, tanto che antichi documenti ci testimoniano che numerose furono le fabbriche e molti i cartai che si riunirono nella "Congrega dei cartai di Amalfi" con la chiesa di Santo Spirito come propria.
Da una carta del 1380 si rileva che un mulino venne trasformato in cartiera per la fabbricazione della carta ed in particolare quella "bambagina".
La carta di Amalfi, che era molto pregiata e raffinata, a causa delle filigrane raffiguranti stemmi vescovili e araldici, simboli della città e disegni di oggetti ed animali soddisfaceva tutta la domanda proveniente dall'Italia meridionale e veniva utilizzata per le scritture private e pubbliche nelle corti degli Angioini, dei Borboni e degli Aragonesi.
Amalfi e le vicine Maiori e Minori conservarono notevole importanza nel settore cartario sino alla unità d'Italia. Da questo momento ragioni politiche e soprattutto di viabilità, in quanto tali cartiere sono situate in zone impervie e montagnose, che non permettono la realizzazione di un'evoluzione tecnologica degli impianti, le hanno ridimensionate, pur essendo esse rimaste famose per la fabbricazione della carta a mano, che ancora perdura fino ai nostri giorni.
La meccanizzazione dei processi di fabbricazione della carta.
La "pila a taglio" o molino, "a pestelli", che aveva la funzione di triturare gli stracci, fu sostituita verso la fine del '600 dalla "pila a cilindri" realizzata dagli olandesi, che sebbene perfezionata è ancora in funzione oggi nelle cartiere più antiche. La necessità di ottenere un migliore rendimento e di sopperire ai capricci della forza motrice nazionale, il vento, è all'origine di questa nuova invenzione: i cilindri, per lavorare gli stracci, permettevano di fabbricare più rapidamente prodotti di migliore qualità.
Probabilmente all'inizio del '700 qualche macchina "olandese" funzionava già nei Paesi Bassi: ma, in Francia, esse furono installate soltanto nel 1740 e più tardi in Inghilterra, Germania e Italia.
L'olandese aveva due funzioni fondamentali: quella della triturazione e quella della raffinazione. Pur non differendo di molto dal "maglio" compiva le due operazioni in minor tempo e con maggior perfezione ottenendo come risultato una pasta molto raffinata e compatta per effetto del trascinamento dell'impasto tra il cilindro e una "piastra" o "platina" sottostante.
Gli stracci, che avevano subito un primo taglio mediante una macchina chiamata "da taglio", venivano sottoposti all'azione del cilindro addetto alla sfilacciatura; questa avveniva in un tempo pari a 3-6 ore a seconda della forza dell'acqua che metteva in movimento il molino; successivamente l'impasto così ottenuto veniva fatto passare al cilindro raffinatore. quest'ultimo, diverso dallo spappolatore, era più vicino alla piastra ed era scanalato sulla sua superficie per consentire l'ulteriore spappolamento delle fibre.
I due cilindri, sia quello di sfilacciatura, che quello di raffinazione, lavoravano in tini costruiti in maniera tale da non lasciare sfuggire con l'acqua anche la pasta. La tina della sfilacciatura conteneva circa 40 kg. di stracci e la tina della raffinazione conteneva sino a 50 kg. di stracci.
Il cilindro si affermò rapidamente a causa dei notevoli vantaggi apportati dalla sua comparsa. Per le sue caratteristiche, compiva in dieci ore il lavoro che le pile a maglio compivano in trenta; resisteva maggiormente, mentre il maglio ogni 5 o 6 anni aveva bisogno di essere restaurato; la pasta molto più omogenea dava vita ad una carta più sottile ma più resistente poichè la fibra per effetto della raffinazione si distribuiva meglio.
Ma il passaggio vero e proprio delle tecniche antiche di fabbricazione al cosiddetto "periodo moderno" si ebbe quando, per soddisfare la crescente richiesta del mercato e per sganciare la produzione dall'intervento umano, si sentì come impellente la necessità di meccanizzare i processi di fabbricazione della carta.
Siamo agli inizi di quel periodo, segnato profondamente dalla rivoluzione industriale in cui il lavoro dell'uomo, così lento e faticoso fu completamente soppiantato, per ragioni di velocità, da quello della macchina.
L'evento concreto che permise questo passaggio dal vecchio al nuovo fu la diffusione della "macchina continua" inventata dal francese Louis Robert che, aiutato dal suo datore di lavoro Didot, 119 settembre del 1798 presentò una formale richiesta di brevetto al ministero "dell'interno"; il 18 gennaio 1799 il "cittadino ministro", constatata l'enorme utilità di quella invenzione gli rilasciò il brevetto.
Il Robert, sfruttando le antiche conoscenze concernenti le tecniche di fabbricazione della carta, ideò una macchina continua in piano che rivoluzionò totalmente il settore cartario. Rifacendosi all'antico telaio costituito inizialmente da tralicci di bambù e più tardi da una rete metallica, realizzò una rete metallica "continua" di proporzioni molto grandi, che passava sopra un tino. Essa era poi munita di un rullo provvisto di piccole vasche che, pescando nel tino, prelevava l'impasto distribuendolo continuamente sul piano metallico.
La "tela", azionata da una manovella, veniva sottoposta a scosse orizzontali e verticali che facilitavano la distribuzione uniforme dell'impasto e il drenaggio dell'acqua.
Il nastro continuo di carta che usciva dalla macchina veniva tagliato in fogli con un coltello di forma arrotondata chiamato "segaccio da cartiera". I fogli venivano poi asciugati all'aria come per la "carta a mano".
Soltanto nel 1822 furono introdotti dei cilindri di rame che, riscaldati con fuoco diretto o con vapore, avevano la funzione di asciugare il nastro di carta. Con il passare del tempo, e man mano che la macchina continua originaria venne perfezionata, questo primitivo sistema di essiccazione fu abbandonato per lasciare il posto ad una vera e propria "batteria di essiccatori".
Alla parte costituita dalla tela, sulla quale la pasta si trasforma in carta a causa della fuoriuscita dell'acqua, nel 1826 il francese Causon applicò delle casse aspiranti e cilindri aspiratori per facilitare l'eliminazione dell'acqua e per maggiorare la velocità di marcia.
Nel 1833 il Donkin inventò i "cilindri premitori" allo scopo di eliminare le tracce lasciate dalla tela, ottenendo così la superficie del foglio liscia.
Nel 1840 De Bergue introdusse i "separa-sabbia", per eliminare dalla pasta le impurità pesanti e nel 1845 i fratelli Brenton inventarono il "tamburo creatore o lavoratore".
Contemporaneamente alla macchina continua in piano, fu inventata anche quella "in tondo", dove la pasta si depositava su una rete metallica costituente la superficie di un cilindro. Essa fu poi utilizzata per la produzione delle carte dette a mano-macchina cioè una categoria intermedia fra le carte a mano e le carte a macchina. I risultati conseguenti all'invenzione della "continua" furono eccezionali, in quanto il primo esemplare poteva lavorare in una giornata la pasta di 6 tini, sostituendo l'opera di cento uomini.
Il prezzo del prodotto cartaceo crollò improvvisamente, facendo sì che da un prodotto tipicamente pregiato si passasse ad un prodotto completamente a disposizione di tutti e utilizzabile per gli usi più svariati.

Fonte: www.cartaia.it

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